Foglio n.13
di Antonio Piccolo
Dalla sua istituzione nel 2005, il Giorno della Memoria ha progressivamente raccolto un numero sempre maggiore di osservazioni critiche e giudizi scettici. Eppure, allora – io andavo a liceo – fu salutato da quasi tutti come un’idea giusta, necessaria. Per me e per i miei compagni di classe, poi, era addirittura una conquista, poiché eravamo sensibilizzati al tema più di altri, grazie alla particolare passione per l’argomento Shoah da parte della nostra amata professoressa di storia e filosofia.
Che falle può mai avere questo Giorno della Memoria? Cosa può esserci di male nel ricordare quell’orrore che fu la Shoah? Di per sé nulla, ma tutte le istituzionalizzazioni hanno come il potere di inaridire, astrarre o snaturare un fatto. Persone più competenti di me hanno individuato gli equivoci del Giorno della Memoria, ma io voglio basarmi sulle mie osservazioni e la mia esperienza personale.
La II guerra mondiale, il nazismo e i lager hanno indubbiamente segnato un avanti e un dopo nella Storia propriamente detta, e poi nella storia del pensiero, della letteratura, dell’arte, della musica eccetera. Anche del teatro. Soprattutto per noi occidentali. Il nazismo è per noi l’emblema dell’orrore, della perdita del senso, della “morte di dio”. Lo si tira in ballo anche in questioni apparentemente lontane. Non è raro sentir dire, per esempio, che senza quell’orrore non ci sarebbe stata la rivoluzione drammaturgica di Beckett, la crisi della fabula, la crisi del personaggio, la crisi stessa del teatro.
Dal 1945 in poi la Shoah ha appassionato i pensatori, gli artisti, i docenti, ma anche i cittadini, gli studenti, tutti. Dal 2005 in poi ha smesso di avere la stessa frequenza nei discorsi. Ecco il primo punto. Dal 2005 in poi se n’è parlato, sì, di più, ma si è automaticamente delimitato il periodo adatto per farlo, e cioè la settimana in cui cade il 27 gennaio.
Il secondo punto è che si è andato cristallizzando sempre più la tecnica di un “racconto della Shoah”. Le svastiche, i colori, i costumi, le scenografie, le musiche, i suoni. Dicono che a raccontarla non ce la dimenticheremo. Ma forse è vero anche che inconsciamente ne esorcizziamo la paura (che invece è necessaria, per non ripetere). Ed è vero anche che nel racconto, soprattutto quello artistico, anche lo show vuole la sua parte. E lo show, per quanto scioccante, ha bisogno di essere guardabile e gradevole. Un film sulla Shoah deve scatenare un senso di orrore, ma non al punto da impedirti di vederlo fino alla fine. Senza contare che il discorso artistico può prendere il sopravvento su quello morale. Un regista può decidere di esplorare un aspetto non esplorato dai registi precedenti: l’umanità dei carnefici, tanto per dire. Decisione artisticamente legittima, storicamente pericolosa.
E così accade che ci si abitua, addirittura ci si assuefà a quell’immaginario, fino a sentirlo distante. Con lo sparire degli ultimi sopravvissuti, la Shoah può a volte assumere i contorni di un racconto leggendario, terribile ma leggendario, oppure lontano come lo sterminio degli indiani d’America.
Parte di quest’alienazione l’ho osservata su me stesso, nei camerini di un teatro lirico in Germania dove ero per recitare in uno spettacolo. Ad un certo punto delle prove, nell’interfono abbiamo ascoltato – con suono tipicamente metallico – la voce di un macchinista bavarese che comunicava qualcosa. Sono saltato, spaventato. Per automatismo, mi son sentito proprio “come in un film sui lager”. Presumibilmente quel signore diceva qualcosa del tipo: «Joseph, ti aspetto sul palco: bisogna puntare un sagomatore in prima americana!», ma per me suonava come la convocazione per le camere a gas. Dunque, una voce tedesca in un interfono non aveva per me alcun collegamento con la realtà, ma era parte invece di un immaginario che mi è entrato dentro, in modo mendace e artificioso.
Terzo punto: individuato il periodo, si è creato un mercato. Il mercato che tocca ogni ricorrenza, ogni “giornata del”. E così ogni anno c’è il nuovo film sulla Shoah, libri di ogni tipo (anche super-tascabili thriller ed erotici). E poi ci siamo noi, noi che pratichiamo anche il Teatro per le Scuole, e per il tempo di una settimana facciamo spettacoli sulla Shoah.
Ci sono due quesiti: uno, che valore ha fare uno spettacolo ad orologeria, con la scadenza sul retro? Due, è giusto navigare in questo mercato e guadagnarsi il pane grazie a quella tragedia?
La questione “scadenza” non dipende da noi, ma può influenzare la qualità del nostro lavoro. Non dipende da noi perché è una scadenza appunto dettata dalle istituzioni, e cosa è più istituzionale della scuola? Noi di Teatro In Fabula ne sappiamo qualcosa. Dire che il nostro spettacolo Le farfalle non volano nei lager è uno spettacolo sulla Shoah, sulla guerra e sul razzismo dovrebbe, secondo noi, garantirgli una universalità e una continuità temporale, perché sono argomenti di cui bisognerebbe parlare ogni giorno dell’anno, e invece no: la settimana della memoria è quella, punto e basta.
Perché influenza il nostro lavoro? Perché uno spettacolo che dura una settimana ci induce nella tentazione di non investirci troppo, non solo in termini economici (sarebbe il meno), ma proprio in tempo di scrittura e di prove, dunque ci induce a non ricercare troppo il necessario spessore artistico.
Il fatto sfiora il grottesco, eppure preferisco chiedermi: siamo sicuri che senza questa Giornata istituzionale il nostro spettacolo avrebbe richieste? Anziché pensare a tutte le settimane in cui non va in scena, forse è giusto concentrarsi sulla settimana in cui senz’altro ci va. Ogni spettacolo, ogni giorno di teatro, è per me un giorno guadagnato.
Ma cos’è che mi preoccupa? Vendere uno spettacolo? Eccoci catapultati al secondo quesito, quello del mercato. Certo, perché no? Fare spettacoli è il mio mestiere, e ho deciso di viverci. È moralmente accettabile sfruttare questa Giornata, e dunque la tragedia annessa, per il proprio lavoro?
La domanda è intellettualmente gustosa, ma la mia risposta è netta e serena. Ebbene, la nostra esistenza è piena di ironia tragica. Dire “menomale che c’è stato Hitler, se no che lavoro facevi questa settimana?” ha qualcosa di dilettevole nella sua beffardaggine, di divertente nel suo ostentato cinismo; è una riflessione ottima per una battuta estemporanea al bar, sul web, dove pessimismo e cinismo vanno di moda; buona anche per il numero di uno spettacolo satirico, in cui la provocazione ha più valore del contenuto in sé. Ma siamo seri… «Sì, è moralmente accettabile. È morale, moralissimo», rispondo io. E del resto cosa farebbe un medico se non esistesse la malattia? Cosa farebbe un agente funebre se non esistesse la morte? Cosa farebbero gli artisti se non esistesse il dolore? Non farebbero nulla, non esisterebbero, dovrebbero trovarsi un’altra collocazione. È una verità tragicamente ironica, o ironicamente tragica, ma è la verità. Una verità che non fa di medici, agenti funebri e artisti un manipolo di ipocriti, o di profittatori, no.
E dunque, sì, mi preoccupa vendere uno spettacolo, ma non solo. Mi preoccupa, da cittadino, sentirmi parte di una comunità in cui davvero la Shoah non sia relegata ad un singolo periodo storico, ma sia piuttosto un segnale di pericolo che ci avverta che, dentro di noi, può germogliare in qualunque momento un orrore simile. Ovvio, scontato, banale? Per chi ha studiato, per chi ci ha riflettuto, per chi ha avuto stimoli sufficienti, forse sì. Per loro potrà essere banale, per esempio, inserire in uno spettacolo brani di Primo Levi, e poi “Auschwitz” di Guccini, e poi ricordare la cifra delle vittime, come facciamo noi di Teatro in Fabula in Le farfalle non volano nei lager. Ma bisogna, invece, avere la percezione di cosa studia un minorenne oggi, delle cose su cui riflette, degli stimoli che riceve. Bisogna mettersi nei panni di un ragazzo di dieci o tredici anni oggi. E, se lo si fa, scopriremo che la Shoah non ha niente di scontato per loro. Ancora Primo Levi? Sì, perché per noi è “ancora”, ma per loro è una scoperta. Ancora “Auschwitz”? Per loro è solo un nome. Ancora le cifre? Sì, sì, e poi sì.
Nel dibattito post-spettacolo, da quattro anni, sentiamo le domande più elementari. «Perché Hitler ce l’aveva con gli ebrei? Davvero c’erano così tanti lager? Quello che avete raccontato è tutto vero?»
Non è colpa loro, se ne sanno così poco. Non so di chi sia la colpa, e in quel momento nemmeno ci interessa. Guai ad avere reazioni censorie o paternalistiche. Casomai, pensare subito: “ecco perché sono qui. Ecco perché ogni anno faccio uno spettacolo che dura una settimana. Sarà poco, ma devo far sì che sia abbastanza. Rimbocchiamoci le maniche, ora e domani, ancora”.
Delegare tutto al film dell’anno, alla storiella, e delegare così, di passaggio, come fanno anche molti insegnanti, è una colpa, che rende vano il Giorno della Memoria, è vero. Ma se “ricordare per non ripetere” da frase fatta si trasforma in osservazione del contemporaneo, e in osservazione dei microcosmi, allora può avere senso, per noi come artisti e per noi come persone.
Ogni giorno di Teatro per le Scuole, davanti alle classi, abbiamo la percezione di com’è cambiata la scuola italiana rispetto a quando ci studiavamo noi. Classi multietniche, nativi digitali, sovra-stimolati. Ma il Pensiero, quando si insinua, riesce a vivere e riprodursi, ieri come oggi e come domani. I ragazzi sono molto meglio di come ce li raccontano, ma bisogna pur mettersi nei loro panni. Noi attori in questo abbiamo un grande vantaggio, perché dovremmo essere allenati a vestire i panni altrui. E, allora, abbiamo anche una grande responsabilità.
Le farfalle non volano nei lager fa questa citazione da Primo Levi, di sconvolgente attualità:
«A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, al termine della catena sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione “ogni straniero è nemico” sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo»
Se ci mettiamo nei panni dei ragazzi, e ci sforziamo di stabilire una connessione con loro, scopriremo che queste parole possono avere un senso immediato per loro, anche nel loro microcosmo quotidiano. Abituati come sono ad avere a che fare con i sotto-gruppi, oggi più di ieri per via dei loro compagni orientali, arabi, africani eccetera, possono senz’altro comprendere quanto sia facile accomodarsi sulla discriminazione, quanto sia facile individuare un capro espiatorio e dargli la colpa di ogni male. E dal ragionamento razionale all’immedesimazione emotiva il passo non è poi così lungo. Dirò di più. Vedere gli occhi dei ragazzi aprirsi, la loro attenzione accendersi risveglia il senso di questa Memoria anche in noi. Il Giorno della Memoria da istituzionale si fa reale, necessario, sacro. Quando il mio compagno di scena Giuseppe Cerrone legge “Fuga di Morte” di Celan chi è che si commuove prima, gli spettatori o noi? Quando la mia compagna di scena Melissa Di Genova impersona Liliana Segre che viene separata per sempre dal padre, chi si commuove prima, gli spettatori o noi? E quando io canto, scandisco “Il disertore” di Boris Vian?
Ecco che Primo Levi, Auschwitz, le cifre non sono “Ancora?” nemmeno più per noi, che li abbiamo ascoltati centinaia di volte, ma si rifanno nuovi, presenti, contemporanei.
Non diamo colpa allo schematismo delle istituzioni, delle scuole, delle “giornate del”. Il Teatro è materia viva, e sono vivi anche gli insegnanti e i ragazzi. A volte ce lo dimentichiamo. A volte ci assopiamo un po’ tutti, mettiamo il pilota automatico e vaghiamo ad occhi aperti, ma senza vedere.
Scuotiamoci e agiamo. Ricordiamo la Shoah e ricordiamoci di essere ancora vivi. Dipende da come si affronta il nostro mestiere, dalla nostra volontà di guardare le opportunità più degli ostacoli. È così comodo concentrarsi sempre sulle mancanze! Così consolatorio, così dolcemente deresponsabilizzante! E invece no, voglio concentrarmi sull’opportunità, che sia anche solo di una settimana. Certo, sia chiaro: per me la scelta è affrontare la Settimana della Memoria con tutta l’arte, l’onestà e il rigore di cui disponiamo, oppure stare a riposo. Se per qualche compagnia di teatro si tratta solo di rompere il salvadanaio, meglio lasciar perdere. Come al solito, dipende solo da noi.