Foglio n.15
di Alberto Bile
Dimentichiamo i sogni. Non li coltiviamo, non li raccontiamo, mai e poi mai li ascoltiamo. Nei film ci annoiano. Nei libri, spesso e volentieri, li saltiamo.
Tutto questo può cambiare dopo aver assistito a “Il Sogno di Morfeo”, scritto e diretto da Antonio Piccolo. In scena con lui: Mario Autore, Antonia Cerullo, Melissa Di Genova e Luca di Tommaso (compagnia Teatro In Fabula), in un spettacolo realizzato con il sostegno del MiBAC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”.
Fin da subito, e fino alla fine, il gusto dell’immaginazione è protagonista in sala. Un gusto che parte da una scrittura felice, si accomoda in una scenografia surreale e cangiante (Luciano Di Rosa e Luca Serafino), si veste di costumi beffardi e fumettistici (Federica Del Gaudio), e si sublima, naturalmente, in cinque prove attoriali brillanti e complementari.
Il dio Morfeo, la sua iper-efficiente sorella Notturno, e il zelante apprendista Artemidoro di Daldi si fanno in quattro: ogni notte milioni di milioni di sogni da imbastire, guidare, puntualmente troncare quando appaiono le ansie del subconscio. Come strampalati scienziati, i tre analizzano tutte le caratteristiche del dormiente di turno, le aspirazioni, le paure e l’ingombrante senno, rappresentate in modo geniale da oggetti e suoni di ogni tipo, in dialogo con le musiche colorite a firma dello stesso Autore.
I tre maneggiano radar e macchine bizzarre, mentre sul palco si avvicendano frenetici i sognatori: Piccolo e Cerullo. Il primo sarà più avanti anche la dea egizia del sonno, Bastet, e il semidio degli inferi greci, Eaco; la seconda la sognatrice Alice, unica speranza per il mondo intero.
La fantasia divina non riesce infatti a sopperire all’immaginazione inaridita e alla mancanza di stupore dell’umanità, che a furia di rincorrere spiegazioni a tutto, del tutto perde una dimensione. Per dirla con Giorgio Colli, l’essere umano si perde e va in rovina nel labirinto del logos. E in effetti il problema è che nessuno più nutre, coltiva, riporta, trascrive, rievoca i propri sogni. Neanche uno straccio di pagina sul diario: il sogno rischia di diventare una spoglia anticamera nella morte. È il messaggio che Piccolo, ancora una volta, riesce a far emergere nitido fra il comico e il poetico, grazie al solito stupefacente lavoro sulle fonti e la lingua.
Com’è consuetudine per Teatro In Fabula, il mito è rapportato al presente, lo si prende in giro, lo si canta, lo si balla e gli si mettono persino in bocca le parolacce: meravigliose le improperie della dea Bastet, in un argot simile a quello utilizzato da Piccolo nel suo Emone. Come risultato, da tutto questo strapazzamento, il mito ne esce più forte.
Ogni personaggio è a suo modo protagonista, in una cura dei dettagli che deve molto a una regia ispirata, coadiuvata da Marco Di Prima.
Mario Autore è un Artemidoro un po’ scoppiato, vestito da anacronistico pilota (qualsiasi sia l’epoca in questione), ed è splendido sia quando segue tempi convulsi, sia quando può rallentare e donare nuovo spessore al personaggio. Nei gesti di Autore una sapiente comicità: nel pianto muto, nel tifo da stadio, nel maneggiare, estrarre, riporre mille oggetti, parole e facce.
Antonia Cerullo, che all’inizio appare tra i sognatori sotto osservazione, è soprattutto Alice, prodigiosa nei monologhi mozzafiato in cui al tempo stesso fa e descrive ciò che fa, evoca ciò che non c’è, crea da sola il sogno intorno a sé, su un palcoscenico che abilmente si svuota il più possibile per lasciarle campo libero. Convince quando si diverte e quando si dispera, e ancor di più quando non sa che fare.
Melissa Di Genova, come la sua Notturno, è costantemente al lavoro: non c’è secondo dello spettacolo in cui una sua espressione o un gesto più o meno evidente non aggiunga significati alla scena intera. E poi urla, salta, sposta; si arrabbia, si fa seria, si entusiasma; è scettica, è infuriata, è il motore instancabile della storia. Il suo pianto non è muto come quello di Artemidoro, ma fa altrettanto ridere, ferma il tempo e, per interposta persona, libera tutti.
Il dio dei Sogni è un Morfeo come mai si è visto: istrionico, sognatore (va da sé) e a volte buffamente trasognato (e due). Con quel suo frac e le movenze esagerate sembra quasi un presentatore, ne è consapevole e ci gioca magistralmente: accentua la dizione impeccabile, spiega didascalico e proprio per questo didascalico non risulta. Con tutto il corpo vive e trasmette le malinconie, le speranze e i tremendi dubbi che portano alla scena finale.
Della prova attoriale di Antonio Piccolo si è già scritto riguardo Bastet: in lui la dea egizia è animalesca, terrona, “cunto” e geroglifico. Ma Piccolo è anche i tre sognatori della riuscitissima, farsesca carrellata muta, e soprattutto il semidio Eaco. Nelle sue frasi stentoree, nel modo di declamare risoluto e rabbioso, non c’è solo il personaggio inserito nella trama: si intravede l’autore, il coraggio della creazione e del lavoro, la fede nelle parole di chi prova a raccontare un sogno.