Foglio n.2
di Melissa Di Genova
La prima volta che ho messo piede a Napoli mi sono detta: «Ecco la mia città!». Ero giovane, appena laureata, affamata di esperienze, di arte, di vita. Ci sono voluti dieci anni perché poi “la mia città” lo diventasse davvero: cinque regalati alla capitale e cinque vissuti nella provincia, la profonda provincia, la campagna per i più. Strani, indispensabili giri.
Per far sì che un arrivo sia considerato tale è necessaria una partenza. La mia è lontanissima: a quattro anni, quando sono salita la prima volta su un palco. Ero una bambina irrequieta e mia madre pensò che un po’ di disciplina non mi avrebbe fatto male. Errore! O meglio, l’irrequietezza dell’animo si è trasformata in disciplina del movimento; ho studiato e studiato, per quindici anni, ritrovandomi danzatrice senza mai desiderare di essere una ballerina di prima fila. Non me ne vorrà la mia straodinaria Maestra Cinzia Donatiello, a cui devo anche l’insegnamento alla determinazione, all’umiltà e al superamento dei propri limiti. C’era qualcosa, però, che la semplice esecuzione non riusciva a colmare, perché anche nelle sue espressioni eccellenti, la danza è in primis una forma d’arte che raggiunge il suo apice quanto più la sua rappresentazione è perfetta e perfettamente ripetibile: la ripetizione perfetta di un codice.
Il Teatro era sulla mia strada, l’incontro è stato fatale. «Sarà la mia vita!» e a diciotto anni dovevo, volevo saperne di più: destinazione Roma, università, studiare, macinare i concetti, le pagine, Artaud, Stanislavskij, Vachtangov, i Comici dell’Arte… «di più! Voglio saperne di più! C’è uno stage. Dove? Al Teatro Vascello. Mi butto!». Ma Roma non era abbastanza, non lo sapevo allora e, a furia di buttarmi, tento la folle impresa di seguire i corsi di specialistica dal lunedì al giovedì, correre a Tiburtina, prendere il pullman, arrivare in Irpinia e condurre due laboratori, uno per i ragazzi della scuola media e l’altro per i liceali, entrambi del mio paese.
Eccolo lì, il primo contatto tra il Teatro che “sapevo” e il Teatro che avrei dovuto costruire; tra il Teatro dei Maestri e un gruppo di ragazzi che di maestri e professori ne avevano le scatole piene. Quel momento, quello stupore, quella meraviglia sono stati il punto. La partenza, per me. Adesso lo sapevo: Roma non era abbastanza. Io dovevo fare Teatro lì, in Irpinia, dove l’avevo incontrato. Così è nata l’associazione di cui ho fatto parte per cinque anni, così è avvenuta la scoperta della mia terra, della gente che la vive e di cosa potessi fare io con l’impresa – intesa come “avventura” – del teatro. Altra meraviglia. Ho visto il pubblico e l’ho amato, profondamente. Ricordo ogni posto, ogni palco, ogni pavimento più spesso, ogni disagio, ogni soluzione, ogni professore o professoressa, ogni maestro o maestra, ogni bidello che mi ha accolto con “Ah! Siti vinuti a fa’ lo teatro? E puro buono è. Ca qua non ‘nge niendi!” e ricordo anche quelli che nella scuola non mi ci hanno fatto neanche entrare. Capita.
Io ricordo tutto perché l’inizio, la partenza non la dimentichi mai, non è soggetta a rimozione, sta lì, come un faro, spento o acceso, ma è lì. Ho cominciato in campagna a fare il teatro che si fa in città: il mestiere del teatro. La mia formazione perciò è stata, è, lo scambio continuo tra quello che faccio – non solo quando sono sul palco – e la gente che il teatro forse l’ha visto una volta («quando è venuto quell’attore famoso») o non l’ha visto mai («no, no. Io non le capisco ste cose» oppure «sì, ma a che serve?»).
Il teatro di città non è così. È dura. Durissima. Si lotta – non mi è venuto termine migliore – per far parte di uno spettacolo in cui spesso conta più il nome del regista che la creazione artistica in sé, un po’ come un prodotto commerciale qualunque: la marca, il brand, lo stile… ma la maglietta, dopo due lavaggi, la usi per pulire i mobili o farci accomodare su il gatto. È dura, durissima. L’artista è svilito, svuotato, privato della necessità di esprimersi e spesso si accontenta, nei casi peggiori si rassegna. È dura, durissima, soprattutto perché si vive come in una bolla d’acqua. Dentro, nella bolla, tutto è ovattato, attutito, rallentato. Non arriva il rumore del mondo, della vita, del pubblico. Nella bolla si finisce col credere alle balle: la poltrona vuota e un nome in più sul curriculum sono “pubblico”; il collega è “pubblico”; il critico che scriverà una recensione che nessuno leggerà è “pubblico”. La bolla fa quest’effetto. È un posto strano, l’unico in cui l’inizio non lo puoi ricordare, non devi, perché ricordare l’inizio, perché hai cominciato, potrebbe portarti fuori dalla bolla.
Allora che si fa? Si fa saltare tutto? Si dice di no a tutti? Non lo so. Quello che so è che, oggi, la scelta è proprio lì, sul limite sottile della bolla: fuori o dentro; e il teatro di campagna è fuori dalla bolla. È la periferia, è il quartiere, è il paese, è il pubblico non educato ad essere tale, è indipendente, è libero (perché lo è!), è il teatro che si produce, si distribuisce, che incontra, che scambia, che crea, che dell’artigianato – sulle orme di una grandissima tradizione – fa arte. È fuori dalla bolla: questo è il suo male, questo è il suo bene.