“2 fratelli” di Paravidino: tragedia della postmodernità?

20 Dicembre 2011

Teatro in Fabula

Riflessione di un attore

“Ci stiamo distruggendo perché accettiamo la nostra infelicità”.
David Mamet

Esordisco prendendo spunto da un passo – fondamentale a mio avviso per la cultura occidentale- del XII capitolo de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (1904):

– La tragedia d’Oreste?
– Già!
D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avrebbe? Dica lei.
– Non saprei, – risposi, stringendomi nelle spalle.
– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
– E perché?
– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

Mi rendo conto che per chi non conosca la trama e il testo in generale dell’opera di Paravidino, sarà difficile seguirmi in questa mia elucubrazione, che altro non è se non una riflessione a voce alta di un attore prossimamente impegnato nella messinscena di tale pièce.
Il testo in questione è costituito da una serie di scene rubate al flusso vitale e quotidiano di cinquantatre giorni condivisi da tre giovani, probabilmente poco più che ventenni, o quanto meno ancora non decisamente vicini ai trenta, due dei quali sono legati da un’unione di sangue: i due fratelli del titolo appunto. Luogo dell’azione: sempre lo stesso, la cucina.

Giocando a mutuare le modalità degli studiosi e saggisti, mi sovviene in mente la celeberrima (bufala) codificazione delle tre unità aristoteliche riguardanti l’antica tragedia. Indubbiamente le due “fondamentali”, quelle di luogo e azione sono preservate. Un po’ meno quella di tempo.
Il legame di sangue, il tradimento, la vendetta, il tentativo di ristabilire un NOMOS, l’indifferenza degli Dèi o la loro assenza, tipica sopratutto di Sofocle ma ancor di più di Euripide (del resto siamo nel 1998 e, non solo “Dio è morto” già da tempo, ma bisogna anche aggiungere che le stesse figure genitoriali non adempiono al loro ruolo che sarebbe in parte quello rivestito un tempo dagli Dèi): sono questi – insieme ad altri- elementi probabilmente non casuali che possono legare 2 fratelli a un filo rosso che giunge fino all’antica tragedia, la quale era tale (tragedia) non certo per la presenza di uno o più decessi.
Ma se nel caso di 2 fratelli di tragedia si tratta, certo – banale dirlo- non si tratta di tragedia antica, essedosi verificato da secoli quelllo “strappo nel cielo di carta”. Ma nemmeno di tragedia moderna. Siamo alle soglie del 2000, la modernità è già deflagrata, siamo nell’era postmoderna, siamo in quella Terra sì sempre più complessa o meglio complicata, ma che allo stesso tempo – citando Samuel Beckett o Leopardi, non ricordo…ma un po’ è lo stesso – “potrebbe essere disabitata”.
Non ci sono valori, solo fantasmi di essi. Non ci sono pieni, solo vuoti e sottovuoti spinti (per dirla con Cerciello). Non ci sono relazioni, solo distanze o morbosi attaccamenti. Non ci sono Miti, solo ricordi ricostruiti o fasulli. Non ci sono Leggende o tradizione, solo icone e scene del cinema della piena II metà del Novecento (vedi esplicita citazione da C’era una volta in America). Non ci sono paradisi né inferni, solo LIMBI in cui si galleggia con indolente voluttà, in cui nemmeno obiettivi e scopi materialistico-borghesi, o quanto meno semplicemente “quotidianconcreti” sono contemplati. Si è destinati pertanto al fallimento. Fallimento totale: pratico, esitenziale, ideologico, vitale. Resta il buco nero dell’anima e di quella cucina…in cui ci si illude di costruire a modo proprio un qualche NOMOS, per quanto assurdo esso sia.

Ma di teatro anche e sopratutto stiamo parlando. Come si traducono “artigianalmente” in scena queste mie elucubrazioni? Beh, tutto è scarno, la scena, le luci, la recitazione tende all’asciuttezza e al “quotidiano” (ovviamente non perdendo mai di vista quel FONDAMENTALE del teatro che Eugenio Barba ne La canoa di carta chiama EXTRAQUOTIDIANITA’ ). Ovviamente il sorriso, anche nella TRAGEDIA dell’Umanità, è sempre in agguato come ci hanno insegnato, tra gli altri, Shakespeare e Beckett. Ma l’unica risposta reale alla domanda l’avrete……..VENENDOCI A VEDERE!

Raffaele Ausiello [Lev, ex Oreste, ma anche Il fu Amleto]

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