Foglio n.8
di Melissa Di Genova
Nel 1906 Kostantin Stanislavskij ritorna a Mosca dopo il riposo estivo per dare inizio alla stagione teatrale. Vi torna portando con sé queste riflessioni:
«Come preservare la parte dalla degenerazione, dalla graduale morte spirituale, dalla tirannia dell’abitudine inveterata dell’attore e dell’addestramento esteriore? (…) È necessaria una certa preparazione spirituale prima di dare inizio alla creazione, ogni volta, a ogni sua ripetizione. Occorre, prima di creare, essere capaci di entrare in quella atmosfera spirituale nella quale soltanto è possibile il mistero della creazione».
Comincia così ad osservare, con sempre maggiore attenzione, il proprio lavoro e quello dei colleghi in teatro, nutrendosi delle perfomance di grandi attori (Duse, Salvini, Fedotova, Rossi) e dei propri compagni di scena, vivisezionandone tecnica vocale, fisica e capacità creative in funzione del personaggio interpretato. Stanislavskij giunge ad una conclusione – quella che insieme ad altre farà parte del grande studio dell’attore su se stesso – che definisce come “la scoperta di una verità da lungo tempo nota”:
«la condizione dell’attore sulla scena, nel momento in cui sta davanti a migliaia di persone e alla ribalta vivamente illuminata, è contraria alla natura e il principale impedimento durante la creazione in pubblico. Questa è l’innaturalezza della condizione dell’attore sulla scena: una condizione nella quale un uomo che sta sulla scena è obbligato a mostrare esternamente quello che non sente all’interno».
Stanislavskij parla di uno squilibrio, fisico e psichico, in cui l’attore si trova continuamente, costantemente, quotidianamente. “Che fare?”. Si catapulta in sala e con la sua compagnia comincia un estenuante lavoro di formazione artistica: un processo creativo che gli consenta di riprodurre una condizione fisica e spirituale autentica, senza scorciatoie estetiche.
«Compresi che la creazione incomincia dal momento in cui nell’anima e nell’immaginazione dell’artista appare il magico “sé” creativo».
Stanislavskij viveva certamente il suo sogno!
E noi attori e attrici oggi?
Prendiamo spunto da Napoli, realtà teatrale che conosciamo. Napoli conta circa trenta sale “ufficiali” che possono ospitare da un minimo di 90 ad un massimo di 1386 spettatori (quelli del San Carlo), più un numero mai censito e forse non censibile di “sale off”. Napoli si presenta come il paradiso dell’attore: un luogo in cui gli spazi possono essere adattati ad ogni esigenza e ad ogni investimento. Tante sale equivarebbe a dire tante possibilità: di mettere in scena; di creare; di sperimentare; di studiare. Insomma, tutto il bagaglio di nozioni, esperienze, capacità e confronto con il pubblico, con cui si definisce un attore.
Nonostante i numeri, però, dare spazio al “sé” creativo di cui parla Stanislavskij sembra essere diventato terribilmente difficile anche a Napoli. Come si spiega questa condizione? Siamo troppi? D’accordo, ma di pubblico a cui far riferimento ce ne sarebbe tanto e di ogni genere. E allora? Perché noi attori di oggi guardiamo alle parole di Stanislavskij e in qualche modo sentiamo che il Maestro è stato un privilegiato?
La situazione è stantia e parlare della condizione artistica di un attore è rarissimo, mentre è frequentissimo discutere della condizione esistenziale dell’attore, che spesso non ha a che fare con l’arte (se non quella di arrabattarsi, più che di arrangiarsi). Molti sono i colleghi che hanno storie degne della collana “Piccoli Brividi” o di Stephen King: «Abbiamo fatto le prove, fortunatamente brevi perché non mi potevano pagare, quindi ho avuto il tempo per fare due reading e un’altra cosetta»; «le repliche sono finite sei mesi fa, ma ancora non mi hanno dato niente». Si potrebbe penare che questa è solo la condizione dei teatri off, degli spettacoli autoprodotti e delle conseguenti difficoltà. No, invece! Non vale solo per i teatri off. È la realtà. Una realtà aggravata da leggi scellerate: bandi per la selezione, e di conseguenza produzione, di spettacoli sempre inediti in una città di circa un milione di persone (un milione!) i cui teatri sono spesso vuoti; percentuali da strozzini per sale frequentate a malapena dai parenti del direttore; richieste di minimo garantito per la sala (per la sala, non per la compagnia!) senza che vi sia alcuna garanzia di pubblico; mancanza assoluta di scouting (è abitudine quasi unanime a Napoli, per i direttori artistici, il non andare a teatro, soprattutto nelle sale off, dove in realtà si sperimentano i nuovi talenti); mancanza di opportunità o provini pubblici, nemmeno nei teatri che vivono solo di pubblici finanziamenti.
Una girandola quasi monocolore, un triste virus insidiatosi nel Ventre del Teatro, che pare premiare soprattutto i bravi nella famosa “comunicazione”: «nun guardat’ a me, guardat’ ‘a man’!».
E il sé creativo? Il “sé” creativo è costipato in un cantuccio dell’anima dell’attore e fa qualche vivacissimo balzo solo quando è sul palco, per poi ritornare mestamente nel suo sgabuzzino. E il sogno? Be’… Il sogno ognuno lo tiene stretto a sé e forse ha cambiato faccia da quando si è saliti per la prima volta sul palco.
Come può un attore, ridotto a costruire il proprio lavoro con scadenze sempre più brevi e magari per sole sei repliche, vivere a pieno l’esperienza della creazione pura? Come può un attore lavorare per mesi o anni ad un solo spettacolo sapendo che probabilmente sarà un’occasione che non porterà alcun riscontro economico e in sala ci sarà solo qualche collega? Come si può credere alla coerenza artistica di un attore che lavora in uno spettacolo che di teatrale ha solo il logo sulla locandina? Come si fa a continuare a passarci queste patate bollenti, senza provare a venir fuori dall’impasse?
Forse abbiamo smesso di comprendere la dimensione del nostro mestiere, abbiamo iniziato a credere che il fine ultimo fosse il successo a tutti i costi (anche quello tra colleghi), dimenticando quella condizione di squilibrio di cui parla Stanislavskij, in cui si può operare solo in funzione di un sentimento di verità. Un sentimento che ha bisogno di sviluppo ed esercizio, costante. Tutti vogliamo lavorare, ma non si può concedersi troppo spesso l’alibi dell’ “io devo lavorare!” e essere corresponsabili, vili e consapevoli, del disamoramento generale per il teatro.
A volte potremmo optare per essere noi stessi il cambiamento, invece di pretenderlo dai nostri spettatori. A volte, i “no” nella scelta di un lavoro – un lavoro come il nostro – sono fondamentali.
«No, non presterò la mia opera ad una squallida iniziativa solo perché se poi dico “no” sono fuori dal giro»;
«no, non presterò la mia opera in uno spettacolo per cui ho a malapena imparato il testo e faccio anche pagare un biglietto»;
«no, non mi presterò ad una performance in cui la mia sola vanità è coccolata»;
«no, non valuterò positivamente o negativamente il lavoro di un collega usando come metro le parole di un critico che vuole fare la rockstar»;
«no, non farò parte della giostra del marketing che spinge verso la modernizzazione-distruzione facendo in modo che anche il teatro sia solo un prodotto da scaffale».
Proverò a dire nuovi, consapevoli “sì”: dirò “sì” al pubblico, all’incontro, al teatro fuori dal teatro, se il teatro resta chiuso per me.
Dirò “sì” ad un collega che mi chiama non per fare uno spettacolo con me, ma per scambiare le mie impressioni con le sue.
Dirò “sì” a quella fame di teatro che c’è nelle strade, nelle scuole, nelle periferie, nei paesi.
Perché io sono un attore, perché io sono un’attrice e ho bisogno di osservare la vita per interpretarla.
Perché io sono un attore, perché io sono un’attrice e devo sbagliare tante volte per trovare la strada giusta, come la sala-prove spesso insegna.
Perché io faccio teatro!
«Io invece a quel tempo continuavo il mio cammino, pieno di dubbi e di ricerche affannose».