Foglio n.16
di Giuseppe Cerrone
Ombre
Colpiva la chioma scura come il corvo
che alto volava sopra le teste la luce.
Miravo il petto elegante
i guanti che volevo sfilare.
Corremmo nei campi
interrogando a lungo morte
sfiorando buche dove ossa
ancora tremanti, stordite
dicevano cose di notte
ormai note, le bombe le foibe.
Io ti sapevo disamorata e stanca
in partenza verso Albione
ma può il fuoco mancare d’accendersi?
Smisi di piangere nel timore
quando colsi l’eterno sui tuoi occhi tersi.
Ad Irene.
04/01/2022
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“Ciò che mi piacerebbe raggiungere ogni volta,
è quel genere di incosciente trascendenza”.
(Alex Chilton, 1988)
Le parole che scrivo e affido al lettore non vengono da un romanzo d’appendice o da un dramma e nemmeno da un copione cinematografico. Hanno invece un’unica sorgente: la vita, i suoi giochi, lo strazio e la felicità che arrecano. Quello che qui riporto è vero. Ha un senso e uno svolgimento preciso, reale. Dunque il vissuto ispira la scrittura che ne dipende in modo totale. Non amo le didascalie, preferisco le dichiarazioni.
Ogni volta che m’illudevo di averla cancellata, lei emergeva sempre. Si muoveva tra i pensieri come per inciderli, bucarli. Scalfiva il corpo e la mente. La ferita, dolorosa, tradiva l’ostinata fissità delle immagini-fantasma, che non vogliono andare. Uno store di abbigliamento, ad esempio. Quando improvvisò un ballo davanti agli increduli proprietari. Loro faticavano a tenere testa alla clientela, anch’essa stregata dalla mia amica, impudente ed elegante figura; inquieta, sottile presenza. Portò la mano sul cuore ed io feci lo stesso, a suggellare un’intesa nata dal nulla. Gli occhi poi, di un azzurro tenue, sapevano di fato e richiamavano il mare, dove acqua e altezze sono un solo impasto.
Fantasticavo sul contegno da assumere se l’avessi vista in compagnia di un altro, magari vis a vis (Quando le bocche si schiudono timide e annunciano futuri ardori). Forse quell’istante sanciva la fuga del desiderio, infatti colui che di colpo rinuncia alla speranza, smette di volere e quindi di soffrire; oppure il trauma della perdita, innescato da uno sguardo ancora ingenuo, mi avrebbe trasformato in insetto, organismo senza ambizione né mordente? Insomma uno scarafaggio di cinquanta chili, educato alle albe e ai tramonti, mirati in modo furtivo da tristi feritoie. Ecco la vera disdetta.
Vagavo per la città sperando di incontrarla o di sorprendere il suo sguardo, seduto a qualche bar. Seguivo istintivamente silhouette di donne che la ricordavano, salvo appurare da vicino che si trattava di un abbaglio. Credevo di scivolare in un passato irrecuperabile, prigioniero di una storia che non sapevo abbandonare, vittima di un incanto che condizionava il passo, facendomi deviare in vicoli mai battuti. Non riuscivo a dimenticare. Una diversa dimensione, quella in cui operano i defunti, ci avrebbe messo di fronte dopo la morte. Sognavo di raggiungerla sull’orlo del precipizio, di procacciarle il cibo sfidando il disequilibrio in cima alle vette. Per fortuna qualcosa mi destava sempre. Allora ritrovavo il senno e tornavo con forza alla vita. Era l’agile richiamo di se stessi quando l’amor proprio salva dalla rovina, fiutando il pericolo. Potevo sentirmi di nuovo tra la folla, il vociare confuso del mercato. Il sonno demente degli innamorati mi lasciava.
Voglio uscire dal noto e abbracciare ciò che è estraneo agli uomini, alle cose, al mondo. Questo amplesso con tutto quello che non ha un nome e che le persone rifiutano, potrebbe annientarmi. Tuttavia, se restassi vivo, quanta forza, quanta potenza si sprigionerebbero. Nulla mi sarebbe precluso e apparirei mutato all’amico come al nemico, portando la gioia del non sapere in ogni casa, abitando quella notte che fu già dei mistici. Oh sacra ignoranza, oh abisso orfano di costellazioni, oh buio disorientante, siate le mie funzioni, la mia unica grande missione. Molti si beano delle loro conquiste in fatto di sesso, io mi vanto dei mal d’amore e degli inferni superati e attraversati.