Foglio n.10
di Antonio Piccolo
«Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare».
(Novalis)
Può il Teatro raccontare il mondo di oggi? Può il Teatro raccontare la Realtà?
È una domanda legittima, che il Teatro di ogni epoca si è posto, e che volenterosamente si pone anche oggi. Ma, se per più di due millenni il Teatro ha avuto quasi il monopolio sul racconto della contemporaneità, oggi non è più così. Non lo è per niente.
Prima c’è stata l’invenzione della stampa, ma non ha scalfito la diffusione del Teatro: l’analfabetismo ha imperato fino a meno di un secolo fa, per cui gli spettacoli dal vivo hanno continuato ad avere una ineguagliabile forza di comunicazione diretta.
Ma l’elettricità e le sue conseguenze hanno a poco a poco inferto ferite non rimarginabili: la radio ha portato la cronaca, la musica e i drammi direttamente alle orecchie delle persone; il cinema ha portato gli attori e le storie direttamente agli occhi, nelle sale; la televisione ha portato tutto questo, più l’intrattenimento, addirittura nelle case. Con internet, per conoscere il mondo di oggi, non è richiesto quasi più nessuno sforzo. Non occorre programmare, esporsi. A stento bisogna interessarsene.
I media di massa non raccontano la Realtà. Sono la Realtà. O, almeno, così pare.
Rivoltato e rimpicciolito da questo vortice, il Teatro ha perso posizioni nel dibattito culturale. Dai primi posti è passato all’ultimo, o giù di lì (in fondo, c’è sempre la Danza che è messa peggio). Ha complessivamente smesso di influenzare l’immaginario collettivo e, anzi, si è lasciato influenzare dagli altri media. C’è qualcosa di male? Non è detto. Purché l’influenza sia saggiata, filtrata, ragionata. A inizio Novecento, infatti, l’invenzione del Cinema ha messo in crisi il Teatro: sono nate così le grandi spinte innovative di Stanislavskij, Mejerchol’d, Brecht, Decroux e gli altri.
Saggiare, filtrare, ragionare… Non una passeggiata, oggi. La comunicazione di massa non si esprime più con un film muto o una trasmissione radiofonica che ad una certa ora della sera finisce. Oggi il bombardamento è esponenzialmente, incommensurabilmente aumentato. E il tempo per saggiare, filtrare, ragionare non c’è. Bisogna prenderlo, strapparlo, pretenderlo da se stessi.
Nel dibattito culturale, prima del Teatro oggi vengono la Letteratura, la Musica, la Radio, i Giornali, Internet e poi… lei: la Televisione.
Regina assoluta dei media (al di là del declino dell’oggetto televisore), la Televisione detta la linea. E nella sua egemonia mediatica, si riflette l’egemonia politica di chi la controlla. E a suon di telegiornali (una redazione per ogni canale, decine di repliche al giorno), ultim’ora, cronaca nera, dibattiti sull’ultim’ora e dibattiti sulla cronaca, ha nutrito l’immaginario. Che, a pensarci bene, è fatto di poche cose, anche se in abbondanti dosi: corpi, sempre più concreti; sesso, sempre più insulso; moda, purché passeggera; logica, sempre più arida; competizione, sempre meno sportiva; volgarità, parole quotidiane, meglio ancora se parolacce; depressione, vittimismo; sangue, revolver, morti ammazzati, sparatorie; ancora sangue, morti ammazzati; soprattutto volgarità e revolver, come se piovessero.
Ci hanno raccontato così tanto la realtà in questo modo che noi – che dovremmo essere la Realtà – abbiamo cercato di somigliare sempre di più a questo racconto. Il Cinema, specie americano, ha spacciato certe storie quasi come documentaristiche, giocando ambiguamente con il “realismo”; intanto la Televisione imitava il Cinema, finché lo sorpassava nella gerarchia; tutto l’occidente poi le è corso dietro; addirittura per definire un genere si è usata una parola, “reality”, nel modo più disonesto che si potesse immaginare. Corpi, parole quotidiane, parolacce, depressione, vittimismo, logica, sesso insulso, volgarità, revolver, sangue, morti ammazzati… soprattutto volgarità e revolver, sempre.
E così il Cinema imita la Televisione, Internet imita la Televisione, le persone imitano la Televisione…
E il Teatro cosa fa?
Si adegua affannosamente, usando gli stessi ingredienti per questa mediocre ricetta. Tenta goffamente di essere “alla moda”.
Sia chiaro, non è detto che usare la parolaccia in teatro sia di per sé banale; che tirare fuori un revolver sia per forza scontato; che indossare jeans, portare capigliature alla moda ed esibire corpi (ancora!) sia necessariamente sintomo di poca fantasia. Non faccio teatro da un giorno, così da non sapere che nel linguaggio teatrale si annidano tante sfaccettature da evitare frettolose generalizzazioni.
Però non capisco a cosa serve che il Teatro si allinei allo stile dei media maggiori. Che si allinei al cinico realismo che divora le nostre conversazioni, dove è vero solo ciò che è concreto e buono solo ciò che vince. A che serve fare la “Fiction” a teatro, con quei tempi, quei vocaboli, quei contenuti, quei gusti? A che serve il “Reality” a teatro, dove sempre più spesso si abbatte la quarta parete non per portare gli spettatori nell’incanto della scena, ma per abbassare la scena alla concretezza della realtà (“pubblico, non ti illudere, non smettere di pensare al reale, al reale, al reale!”).
E non parlo del teatro commerciale, culinario. Parlo di quel disincanto, di quella logica così prevedibilmente razionale, di quel “dio è morto e non c’è niente in cui valga la pena di credere” che traspira in tanto teatro, anche colto, e che di base è uguale a quello che si respira nelle serie tv che crediamo di scegliere.
Cos’è? Non siamo riusciti ad evitare che Cinema e Televisione si appiattissero, abbiamo perso terreno, e adesso il Teatro gli corre dietro sul campo della disillusione? Del sesso insulso, delle parolacce, della depressione, del vittimismo, della logica, del sangue, dei morti ammazzati… soprattutto delle volgarità e dei revolver, sempre.
Invece Teatro In Fabula dice: ormai, l’Uomo ha troppi anni per cadere nella trappola del cinismo. Il cinismo è adolescenziale. Ti fa sentire arguto per un attimo, ma poi ti lascia il vuoto. E lo sappiamo tutti. È per questo che corriamo a riempirlo, quel vuoto, fuggendo in un’altra realtà, che è quella virtuale.
Da attore, regista, e forse anche da drammaturgo e formatore, ho la sensazione che dobbiamo prenderci la responsabilità di essere diversi. Di volerlo essere. Di reinventarci diversi. Di raccogliere questa richiesta d’aiuto, perché la fuga negli smartphone è decisamente una richiesta d’aiuto, una fuga dal mondo reale.
La realtà ce l’abbiamo sempre davanti, in tv, a cinema, sui giornali, su internet: l’abbiamo guardata in tutti i modi. L’abbiamo vista così da vicino che ora non ne distinguiamo più i contorni. E se per capirla, oggi, occorresse invece trasfigurarla?
Teatro In Fabula dice: questo non è il momento storico per guardare la Realtà ancora più in profondità; questo è il momento di guardare la Realtà da un’altra angolazione.
E, per questo, abbiamo bisogno come non mai di elementi che non le appartengono. Parlo proprio dell’estetica, della forma. Come uomini e donne di teatro, dovremmo darci l’obiettivo di collaborare alla ricreazione degli immaginari a forza di sogni, slanci, utopie, metafore, parole extra-quotidiane, invenzioni fantastiche. Dovremmo evitare il 90% degli ingredienti di cui sopra (sesso, sangue, revolver…), o come minimo trasfigurarli all’interno delle rappresentazioni.
Dobbiamo creare una Realtà Altra, perché la nostra alternativa non è virtuale: la nostra Realtà Altra è il Teatro. Piena di giochi, quanto più dichiaratamente falsi, illusori, ingannatori.
In questo mare di cinico disincanto, ho sentito più di una volta dire da persone di teatro cose come “Oggi non puoi più fare che Amleto è un principe, in Danimarca, nel 1600… la gente non ci crede più!”. Cosa? E perché? La gente prima ci credeva? Era così scema da non sapere che quello era un gioco, un sogno, un’illusione? O piuttosto voleva crederci, stava al gioco, perché sapeva che, grazie a quell’inganno, sarebbe riuscita a conoscere la Realtà, più di quanto gli sarebbe mai riuscito a suon di “reality”?
Picasso disse: “Ho impiegato una vita per arrivare a dipingere come un bambino”.
E dunque… Se, superata l’adolescenza del Novecento, l’uomo recuperasse la sua infanzia? Se l’uomo di Teatro facesse sue le impossibili domande del bambino, del tipo “Perché il cielo è azzurro?”, “Come fanno gli uccelli a volare?”, “Perché l’acqua scorre in un senso e non nell’altro?”. Senza cercare le risposte in rete, né sull’enciclopedia, e nemmeno nel suo bagaglio d’istruzione.
Sì, noi attori, registi e drammaturghi potremo sembrare degli alieni. Ma potremo mai attirare meno gente di quanta ne attraiamo ora? Quanto potrà durare ancora il teatro, con quest’imitazione del cinema e della televisione, che sia etica oppure estetica?
Teatro In Fabula dice: torniamo all’incanto, al sogno. Giriamo via dalla Realtà, e proviamo a beccarla da un’altra angolazione. Inventiamocela noi, la Realtà. Buttiamo via la Logica. Abbracciamo la Fantastica.
Ora che siamo adulti, impariamo a fare Teatro come dei bambini.