quaderni di teatro in fabula
Uno spazio di riflessione, uno spazio che ci mancava: un momento in cui fissare, a beneficio nostro e forse anche di chi ci segue, alcune delle scoperte che il nostro mestiere ci porta a fare.
Per poter mettere nero su bianco alcune tappe del nostro percorso, nel tentativo di essere sempre più intensi, coerenti, ma conservando anche la leggerezza necessaria al viaggio.
Su uno spettacolo che vorrei fare
Un uomo, una donna. Uno spazio da abitare insieme. Modificandolo. Sono ignote le ragioni di questo ménage. La loro complicità è misteriosa. Non vi sono carezze né baci. La sessualità è assente. Eppure, è evidente, si trasmettono pensieri. Si potrebbe arguire, a ragione, che questa libertà dall’amore, abbia un unico fondamento, riposi su un unico dato: l’uomo e la donna sono fratelli o fratellastri. Non è così. Non si somigliano. Semplicemente si penetrano con lo sguardo. E, come detto, coi pensieri. Parlano pochissimo. Ciò che dicono e ci dicono, è ciò che dobbiamo sapere.
Scuola e Teatro: connubio rimandato
Se esiste un posto assolutamente inappropriato per ideare, strutturare, sviluppare e mettere in pratica un laboratorio teatrale… quel luogo, per l’artista, è la scuola. Almeno quella di oggi, quella conosciuta da me. La prima volta che ho messo piede in una scuola era il 1988 e di quel momento ho un ricordo confuso, ovviamente, ma piacevole. Ricordo le recite scolastiche, le maestre, le canzoni. In fondo, per una bimba di sei anni era piacevole. Laboratori di teatro? No, non alle elementari, non alle medie. Al liceo? Sì! Quelli sì, li ricordo vividamente. Il teatro a scuola è stato, per buona parte della mia crescita, tutto opera e missione delle maestre, delle educatrici. Spazio per i professionisti del settore non ce n’era.
Chi ce lo fa fare, questo trambusto?
Eccoci di nuovo qui, su un nuovo palcoscenico (se così si può chiamare). Tra poco comincia un’altra replica del nostro spettacolo, stavolta in una scuola. Ci siamo svegliati presto, abbiamo mangiato e bevuto qualcosa di caldo, per dare una carezza alle nostre voci. Poi siamo venuti qui, abbiamo osservato lo spazio e, come ormai ci stiamo abituando, abbiamo messo subito a fuoco il da farsi: dove mettere la quinta, dove gli spettatori, cosa ci occorre, cosa dobbiamo necessariamente scaricare, di cosa possiamo fare a meno.
Potlatch – Sull’Emone e dintorni
La neolingua di Antonio Piccolo, “La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato”, impone qui una riflessione. Antonio Piccolo è autore di lingua italiana, serenamente impiegata tutte le volte che l’impiegò, dai saggi musicali su Tenco¹ e De Gregori², ai versi alessandrini di un’apocrifa operetta sugli ultimi istanti del conte Giacomo Leopardi³. Tanta olimpica accettazione non lasciava presagire la svolta linguistica di Emone, un laboratorio plurietimo e a limite plurilingue, dominato da un napoletano arcaico, cólto che se ricorda Basile, però si dispiega in parole inventate, di conio mai espresso in precedenza.
Teatro di campagna, teatro di città
La prima volta che ho messo piede a Napoli mi sono detta: «Ecco la mia città!». Ero giovane, appena laureata, affamata di esperienze, di arte, di vita. Ci sono voluti dieci anni perché poi “la mia città” lo diventasse davvero: cinque regalati alla capitale e cinque vissuti nella provincia, la profonda provincia, la campagna per i più. Strani, indispensabili giri.
2017, l’anno in cui ho avuto successo
«Per me, una canzone di successo è una canzone che rappresenta l’emozione che l’ha generata». Queste parole me le ha dette Gianmaria Testa, un cantautore che ho amato prima che fossimo in molti ad amarlo, e mi si sono scolpite nella memoria. Perché con l’idea di successo ho sempre fatto a pugni: il mondo sembra chiederti di avere successo, ma poi quelli che hanno successo spesso non ti piacciono (né come sono, né come ci arrivano). Quella frase di Gianmaria Testa, invece, costruiva un ponte: il problema non è il successo in sé, ma il successo per te.