Due fratelli

Tragedia da camera in cinquantatre giorni

di Fausto Paravidino

con Raffaele Ausiello, Simona Di Maio, Stefano Ferraro
voce registrata: Larissa Masullo
scene: Antonello De Leo
regia: Giuseppe Cerrone e Antonio Piccolo

anteprima:
15-22 dicembre 2009: Spazio Libero Teatro, Napoli

debutto:
28 dicembre 2010: Teatro Elicantropo, Napoli

repliche:
29 dicembre 2010-2 gennaio 2011: Teatro Elicantropo, Napoli
9-15 gennaio 2012: Il Pozzo e il Pendolo, Napoli
28-29 gennaio 2012: Ethnos Club, Torre del Greco (NA)
7-8 luglio 2012: Alto Fest, Napoli

Fabula

“Ci stiamo distruggendo perché accettiamo la nostra infelicità”.
David Mamet

La cucina di un appartamento di una delle nostre città. Una storia. Quella dei fratelli Boris e Lev e della loro coinquilina Erica, che si lasciano vivere al ritmo disperato di un tic-tac di sveglia che si ferma arbitrariamente, per coglierli e mostrarceli in alcuni casuali momenti di passaggio apparentemente insignificanti.

Dialoghi serrati, un fiume di pensieri, un oceano di parole. In cui non c’è traccia di uno scopo di vita individuale, seppure quotidiano, né la ricerca di un benessere, e nemmeno la reale volontà di entrare in contatto con il prossimo. Incatenati l’uno all’altro, prigionieri di una cucina-buco nero dove ogni occasionale spiraglio di luce viene stroncato alla fonte, la vita scorre senza grazia e l’analfabetismo emotivo si trasferisce dalle parole ai gesti.

Solo una storia. Sicuramente inventata, o forse no. Forse già accaduta, forse non ancora. Nella cucina di un appartamento di una delle nostre città.

Note di regia

Vincitore del Premio Riccione Teatro 1999, “Due fratelli” di Fausto Paravidino è la storia della convivenza fra tre ragazzi: i fratelli Boris e Lev e la loro coinquilina Erica. Sono giovani della società del benessere, istruiti, ironici e, a momenti, divertenti, aggrovigliati in un vortice di parole senza scopo, ciondolanti nella cucina di un appartamento lontano da casa, privi di obiettivi – anche quotidiani, anche minimi.

Nessuno prepara un esame universitario, nessuno ha un impegno di lavoro, ma tutti sono impegnati a fare i conti con la propria nullafacenza e con l’apparente mancanza di problemi da risolvere.

Una storia raccontata dall’autore che si limita alle parole pronunciate, drammaturgicamente avaro di note extra-dialogiche e d’indicazioni generiche sui personaggi (età, aspetto fisico, provenienza etc.). Una storia nel segno di una neutralità palese, anche morale, in cui Paravidino non lancia messaggi né distribuisce torti e ragioni ai personaggi da lui creati, senza per questo impedire l’impatto emotivo del lettore sul testo.

Coerentemente con questa lettura, e valutata la storia come rappresentativa di una parte dei giovani degli ultimi vent’anni in questa fetta di mondo, l’idea di messa in scena è quella di colpire lo spettatore con la cocente plausibilità della violenza che vive tra le righe e tra le azioni del testo.

Il pubblico siede nella cucina in cui si svolge l’azione, testimone diretto e non uditore ‘protetto’ dal distacco palco-platea. Per questa stessa ragione, i sensi chiamati in causa, oltre l’udito e la vista, sono anche l’olfatto (l’odore di caffè o delle arance è percettibile) e il tatto (la sedia trema se Lev o Boris scaraventano a terra un piatto). Gli effetti audio e le luci sono quasi del tutto azzerati, per lasciar posto agli attori.

La rinuncia al teatro comunemente inteso è solo illusoria: le regole della convenzione e della rappresentazione regnano sovrane. I cinquantatré giorni della storia sono compressi in cinquantacinque minuti. Il trascorrere del tempo è segnalato dall’angosciante ticchettio di un orologio e la scansione delle ore da una voce robotica e inespressiva, che non dà scampo a giudizi e commenti.

Come a dire: questa è la storia, anzi questa è una storia. Che sia accaduta o meno non ha molta importanza, poiché sta accadendo in questo momento, dinanzi ai convenuti.