Sulla rivista online Otternative, il 26 aprile è stata pubblicata un’intervista ad Antonio Piccolo, da parte di Andrea Zangari. Il link all’intervista è qui.
Di seguito, riportiamo per completezza il pezzo integrale.
ANTONIO PICCOLO: “La drammaturgia è come uno spartito: viene scritto per essere suonato”
Tempo di lettura: 4 minuti
Antonio Piccolo, napoletano, classe ’87, è un attore, regista, drammaturgo, saggista e docente, che sta ottenendo grande successo grazie al suo modo di giocare con il teatro, fondendo le tante esperienze multimediali accumulate nel tempo. L’abbiamo incontrato dopo aver visto il suo Emone, una riscrittura molto particolare dell’Antigone di Sofocle.
Ciao Antonio, benvenuto su Otternative! Mi piacerebbe rompere il ghiaccio facendoti partire da un ricordo legato alla tua vita nel teatro, qualcosa che ti viene in mente ora se smetti di pensare e lasci andare la memoria. Qualcosa che vorresti condividere coi lettori.
Ho tre anni o qualcosa del genere. È una serata allegra. Sono in Piazza della Prefettura a Potenza, il paese di mia madre, e guardo insieme alla mia famiglia uno spettacolo di guarattelle. Canovacci classici, credo, con Pulcinella, il Diavolo, un mago eccetera. Alla fine sono così incantato che costringo i miei a comprarmi alcuni di quei burattini. Nei miei giochi d’infanzia li consumerò. Uno è entrato addirittura in Pulcinella e la scatola magica, un recente lavoro di Teatro In Fabula, la mia compagnia. Credo sia cominciato tutto da quella sera lì, anche se poi ho cominciato a recitare solo a diciassette anni.
Possiamo partire proprio da queste maschere, per tracciare una linea attraverso la tua formazione. Quali sono state le tue infatuazioni teatrali? Hai seguito un percorso accademico? Quali sono i tuoi miti, i tuoi riti, i tuoi riferimenti?
Le mie infatuazioni sono in adolescenza, e non riguardano solo il teatro, ma anche la musica, la letteratura, il cinema, lo sport. Ho imparato prima a suonare, poi a fare teatro. Nel periodo dell’innamoramento per De Gregori, Saramago, Nanni Moretti e Maradona ho un altro ricordo: io che gioco a calcio con una palla di gomma, dentro casa, mentre con un occhio guardo ininterrottamente le commedie di Eduardo De Filippo in televisione. Volendo parlare di riferimenti, quello a cui torno più facilmente ancora oggi è lui: Eduardo.
La mia formazione è disordinata: ho studiato recitazione, mimo, canto, drammaturgia, con metodi abbastanza diversi. Solo la pratica del mestiere ha potuto collegare queste esperienze. A diciannove anni ho preso parte come attore al mio primo spettacolo professionista. Non vorrei essere banale, ma credo che proprio la pratica del palco sia stata la mia scuola principale.
Una domanda marzulliana: cosa deve avvenire nell’esperienza che chiamiamo teatro? Esiste un vero ambito definitorio?
Non posso parlare per tutti: posso dirti quello che deve avvenire per me. Quando esco dal teatro – da attore o da spettatore – voglio ritrovarmi con uno stato vitale più alto di quando ci sono entrato. Una voglia di vivere maggiore! Ciò non vuol dire che gli spettacoli devono essere necessariamente “ottimisti” o “a lieto fine”, ma che devono essere messi in scena con generosità e cuore aperto. Generosità vuol dire anche intensità, rigore, precisione e fatica. Cuore aperto significa svelare sinceramente qualcosa di sé, nel profondo, senza essere necessariamente autobiografici.
Quali sono le tendenze, le strade contemporanee del teatro cui guardi con più curiosità?
Il teatro che ruota intorno all’attore, ossia all’essere umano, com’era quello di Eduardo, com’è quello di Arturo Cirillo, Toni Servillo, Musella/Mazzarelli e molti altri, mi fa venire una voglia di vivere maggiore.
Il teatro che ruota intorno alla scenografia, le luci, i segni registici, le citazioni, gli effetti speciali mi fa venire voglia di correre a bere una birra per consolarmi.
Posso dire che il mio “stato vitale” dopo aver visto Emone era più alto. E che Eduardo si sentiva, forte e chiaro. Da dove sei partito per scriverlo? È venuta prima l’idea “letteraria” o la “scena”, veduta e trasposta?
Sono contento che l’effetto per te sia stato questo! L’idea parte da lontano, anche se in modo embrionale. Il mito di Antigone mi ha colpito al liceo; dopo i vent’anni avevo quest’idea di riscrittura in napoletano, che proponevo ad amici drammaturghi. Non so bene perché. Poi, a forza di riflettere, ho scritto una stesura del mito, ma con un nuovo punto di vista. Emone, nella mia reinvenzione, è finalmente la possibilità di conciliare le ferme prese di posizione che nei testi greci portano alla tragedia. Insomma, sono partito dal contenuto: Emone è l’utopia. È evidente, però, che il mio pensiero era alla scena. Quest’idea aveva bisogno della sua forma, e la forma con cui io lavoro è il teatro. La drammaturgia è come uno spartito: viene scritto per essere suonato.
Hai detto che ami un teatro che mette l’attore al centro: in Emonequesto si sente moltissimo, ma si vede anche un rigoroso e intenso esercizio della parola. Come si incontrano, allora, il testo, che almeno in parte sta a monte, e la realtà vitale dell’attore?
Il contenuto da solo non basta. Infatti, la prima versione di Emone era in italiano, e non suonava per niente. Dopo mesi che era nel cassetto, mi è scattata una scintilla. Praticando personalmente, come attore, la lingua de Lo cunto de li cunti di Basile, Lu santo jullare Francesco di Fo e altri, ho sentito che quello era il sound da cui partire. L’ho filtrato a mio modo, semplificandolo, perché volevo che fosse abbastanza comprensibile anche per un milanese. A proposito della “realtà vitale dell’attore”, è accaduto un fenomeno interessante: nel riscrivere il testo in questo nuovo napoletano, nel rileggerlo ad alta voce… i personaggi hanno per forza di cose mutato fisionomia e persino la trama è andata via via cambiando! Forme e contenuti non possono ignorarsi: la mia non è né un’operazione filosofica, né un’operazione letteraria. Del resto, io sono un attore che scrive, non uno scrittore che recita.
Con Emone hai vinto un premio importante e sei stato pubblicato con Einaudi. Un bellissimo traguardo. Come ti fa sentire?
Mi fa sentire più fiducioso. Il premio PLATEA è la classica occasione per cui uno pensa: “figurati se lo danno a me, già sanno a chi darlo”. Posso dire serenamente che non conoscevo nessun giurato e che da sempre bazzico altri circuiti teatrali. Questo riconoscimento improvviso è uno sprone non solo per me, ma per tutti gli artisti che fanno bene il loro mestiere senza la giusta attenzione. Siamo in tanti e, secondo me, se trascorriamo il tempo a fare, più che a lamentarci, lo spendiamo meglio. Non voglio peccare di falsa modestia: so che Emone è un testo bellissimo, e l’ho sempre saputo, prima di ricevere il premio. So anche che con Teatro In Fabula facciamo un lavoro pregevole, rigoroso e comunicativo già da qualche anno. Spero che il premio abbia una ricaduta professionale su tutta la compagnia ma, se non dovesse accadere o accadesse solo in parte, continueremo a fare il nostro teatro con generosità e a cuore aperto.
Lasciamoci con un gioco: se fossi un personaggio teatrale, maschera, eroe greco, o carattere shakespeariano che sia, chi saresti?
Me la servi su un piatto d’argento… Emone! A chi credi che pensassi quando l’ho scritto? Tra me e lui c’è una sola ma sostanziale differenza: io, di fronte all’ottusità di chi continua a creare conflitti, a un certo punto mi rassegno; lui, da buon personaggio tragico, si toglie la vita. Probabilmente, è meglio insistere e ricominciare ogni volta da zero, ma come idea letteraria è poco efficace.
Grazie Antonio, spero di rivedere presto i tuoi lavori, nuovi o ripresi, in scena.
Grazie a te per le domande attente e a Otternative. Speriamo di incontrarci presto!